La trama ha l’essenzialità di un racconto breve o di una piéce teatrale: Michelle (Stone) è la CEO di una azienda farmaceutica che viene rapita dal cospirazionista apicoltore Teddy (Plemons), coadiuvato dal cugino ritardato Don. Teddy ha elaborato la teoria che il mondo sia minacciato da una razza aliena proveniente da Andromeda ed è convinto che Michelle sia l’esemplare extraterrestre a cui estorcere a ogni costo una confessione. E quindi il film è quasi interamente incentrato in questo tour de force quasi polanskiano tra vittima e carnefice, in cui irrompe da subito una riflessione sulle classi sociali sparata a chiare lettere nel primo montaggio alternato, per poi inchiodarsi sulla linea di confine indiscernibile di realtà e immaginazione, verità e disinformazione. Eccoci allora una volta ancora davanti alla specialità del team Lanthimos/Stone: il film-manifesto, la dark-comedy “teorica” con cui disintegrare la società degli uomini e delle idee.
E quindi Bugonia è l’ennesima emanazione di un cinema inevitabilmente e programmaticamente “attuale”, che si propone come sala operatoria saggistica di contenuti post-umani e post-ideologici (“Ho attraversato tutto l’apparato digerente: destra, estrema destra, progressismo, marxismo”, confessa Teddy a Michelle), fatto di personaggi automatizzati, il cui dolore è già un’eco lontana, qualcosa che si è perso nel fuori campo e ha lasciato il posto alla persistenza ossessiva dell’auto-annullamento e della comica finale. Che piaccia o meno, Lanthimos ha il merito di azzerare tutto e di portare il cronico didascalismo dei suoi parossistici pamphlet fino al punto di non ritorno di una malinconica ballata destinata allo spegnimento. Eppure più che un vero e proprio game over, Bugonia è un triste stand-by che si affaccia sull’Apocalisse permettendosi il lusso – per Lanthimos, sicuramente! – di una lacrima congelata, che magari prima o poi scenderà per ammorbidire il cinema-marionetta del cineasta. Prima o poi…

